La strana idea di Roma del generale Vannacci…

In questi giorni tanti hanno commentato il Vannacci-pensiero, facendo l’esegesi del libro del generale nuovo idolo della Destra più estrema e quindi io non potrei certo aggiungere molto, tranne far notare l’abuso di riferimenti all’art. 21 della Costituzione sulla libertà di espressione (e ci mancherebbe) e – parallelamente – il fatto che nessuno si sia degnato di citare l’art. 52, ultimo comma, laddove si stabilisce che «L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica». E la democrazia è incompatibile con discriminazioni su base etnica, sessuale o di genere.

Ma la cosa che più mi incuriosisce è il collegamento tra il retaggio di Roma e la rivendicazione di “italianità”, qualsiasi cosa questa significhi. Il generale – che pure afferma discendere da Enea – dimentica che l’eroe epico fuggiva da Troia ed era quindi un profugo di guerra. Per citare il Proemio dell’Eneide:

«Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda / di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, / molto sofferse anche in guerra, finché ebbe fondato / la sua città, portato nel Lazio i suoi dei, donde il sangue / Latino, e i padri Albani e le mura dell’alta Roma

Insomma, il generale che detesta gli stranieri – soprattutto se poveri e in fuga – trascura che l’Eneide racconta di un profugo che fugge dalla sua città in fiamme, devastata dalla guerra. Enea – a quanto si apprende prozio del generale – viene dalla Turchia, ha perso tutto, tranne i suoi affetti più cari. Si mette per mare e la sfortuna lo perseguita malgrado sia un uomo pio, una persona perbene. Soffre le pene dell’inferno e tra mille peripezie riesce a sbarcare in Italia – la sua terra promessa – dove con coraggio e operosità si costruisce una nuova vita.

Inoltre il generale traccia un ardito collegamento tra Roma, Italianità e “tratti somatici”. Ma di nuovo fa confusione, perché se c’era una cosa che non importava più di tanto ai Romani era la provenienza. Roma ebbe certo molti imperatori nati in Italia, ma ebbe pure imperatori illirici (ben 13, che salvarono l’Impero dal crollo nel III secolo), ispanici, galli, siriaci, libanesi, turchi, arabi, iracheni, nordafricani… Settimio Severo aveva presumibilmente dei tratti più simili a quelli dei parenti di Paola Egonu che a quelli del generale e – tra i sovrani più importanti – si devono per forza ricordare Traiano (ispanico), Diocleziano (croato) e Costantino (serbo). E turco era San Paolo, che evitò di essere torturato ad Efeso proprio perché rivendicò la propria cittadinanza romana, ottenuta alla nascita («civis romanus sum» disse ai propri aguzzini, che immediatamente si rimisero in riga…)

Questo perché Roma era, dal punto di vista etnico e culturale, una realtà meticcia e bastarda, un melting pot in cui il senso di appartenenza alla comune romanitas prevaleva sulla “limpieza de sangre” e se davi il sangue per lo Stato, pagavi le tasse e rispettavi l’Imperatore non c’erano problemi di sorta…

Però, si potrebbe obbiettare che io scrivo dell’Età imperiale, mentre la Roma repubblicana era tutt’altra cosa, più pura dal punto di vista etnico e culturale: la Roma voluta da Romolo, pure lui antenato in linea retta del generale. Ma va ricordato, però, che quando l’Imperatore Claudio (48 d.C.) propose in Senato di concedere ad alcune città della Gallia la cittadinanza romana in base ad una sorta di “ius culturae” (per richiamare la dimenticata proposta di legge del PD) – e incontrò su questo l’opposizione di senatori che la pensavano esattamente come il generale – fu costretto a sottolineare ai padri coscritti che Roma era nata dal nulla e che da subito si fuse con altri popoli e che la stessa stirpe dell’Imperatore era di origine Sabina (Claudio evidentemente non era etnicamente puro come Vannacci). E citò proprio Romolo, ricordando che «Romolo, fondatore della nostra città, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini». E aggiunse – per spazzar via la paura dei conservatori, terrorizzati dalle cose nuove:

«O padri coscritti, tutte le cose che si credono ora antichissime, furono nuove un tempo: dopo i magistrati patrizi vennero i plebei, dopo i plebei i Latini, dopo i Latini quegli degli altri popoli italici. Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi».

Non lo dico io, lo dice Tacito (Annales, XI, 24). Che consiglio di leggere, anche se nella hit parade dei best sellers Amazon questa settimana non è messo benissimo.

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Una risposta a La strana idea di Roma del generale Vannacci…

  1. lascoltodelvenerdi ha detto:

    “Non siamo noi razzisti! Sono loro che sono napoletani!”
    (era una battuta di Giobbe Covatta quando interpretava il politico che dibatteva contro Francesco Paolantoni, o viceversa)

    Credo che questa battuta riassuma molto il pensiero di molti. Italiani e no.

    Il secondo pensiero va sulla distinzione tra Enea e un “Abdul” qualsiasi: uno ha fondato Roma, l’altro ha aperto un kebab… vuoi mettere la differenza?

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