Il Tennis, “metafora della vita”

Il Tennis “metafora della vita” è una delle categorie più fortunate di questo blog, una di quelle con i post che amo di più (non dico migliori, quello spetta giudicarlo al lettore, anche se alcuni sono proprio bellini) e che mi sono maggiormente divertito a scrivere.

Si può scrivere di tennis, parlare di tennis ma raramente il tennis ha avuto un ruolo centrale in un film. Talvolta ne è stato motore e scusa, come nel bellissimo Matchpoint di Woody Allen, altre volte si è prestato al genere biopic in modo anche efficace, come in Borg-McEnroe o in Una famiglia vincente, dedicato alle sorelle Williams e al loro padre-padrone, ma non ricordo un film dove l’essenza del tennis, la sua assoluta peculiarità sia analizzata nel dettaglio e trasformata in una storia universale. Fino a ieri sera, almeno, quando ho visto Challengers, di Luca Guadagnino.

ATTENZIONE, SPOILER

Mi ero avvicinato al film in modo circospetto e diffidente, perché il trailer lasciava intendere che la centro della narrazione ci fosse una vicenda pruriginosa tra protagonisti giovani e belli, un ménage à trois per esaltare il quale si sono tirati in ballo altri esempi come Jules o Jim o The Dreamers. Beh, mettiamocelo via: c’è un mènage, sono in trois ma il tema è – appunto – il tennis come “metafora della vita”. La sua dimensione solitaria eppure relazionale, il suo essere così complesso sotto l’apparenza semplice, le diverse modalità con le quali viene vissuto e interpretato, la sua natura a un tempo elegante e violentissima.

Dicevo in apertura che ero diffidente, tuttavia l’ambientazione – un torneo “Challenger“, vale a dire il Purgatorio del tennis, mi sembrava originale, non scontata come sarebbe stata – ad esempio – una trama incentrata sul glamour e il prestigio di Wimbledon, di cui sanno qualcosa anche coloro che non seguono minimamente il tennis. Però non è solo un film per amanti del tennis. Si tratta di un lavoro di ottima qualità, scritto molto bene e recitato altrettanto bene, con una regia elegante – anche se a tratti un po’ gigiona e barocca – con alcune frasi che restano impresse e molti argomenti di discussione nel dibattito post proiezione. Un film bello, molto di più del lezioso Call me by your name, così tanto adulato. E se fosse terminato circa un minuto prima, un minuto solo, avrebbe sfiorato la definizione di capolavoro minore.

Quel minuto in più alla fine, a parer mio, è la sola vera pecca del film.

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Non si pretendeva mica Shakespeare…

La fiction Rai “La Lunga Notte” racconta una delle vicende più torbide e appassionanti (per chi ama il thriller politico) nell’intera storia dell’Italia unita: la caduta di Mussolini e – con lui – del regime fascista, nel pieno di quella terrificante tragedia che fu la II Guerra Mondiale.

Si tratta di una storia che sarebbe piaciuta a William Shakespeare, un po’ Macbeth, un po’ Riccardo III: la tragedia di un tiranno scontroso, lunatico e malato e attorno a lui una corte di famigli che intriga per accaparrare il potere, di alleanze infide, di donne che dietro le tende tramano e cercano di guidare i maschi e sullo sfondo – come un metronomo – il costante e lento avanzare dell’esercito nemico, quasi a dettare il ritmo dell’intera vicenda.

Che versi immortali, che personaggi indimenticabili avrebbe creato Shakespeare. Ma lo spirito del Bardo non ha volteggiato nella stanza del regista e degli sceneggiatori, cucinieri svogliati che hanno impiattato una sbobbosa polpetta senza sugo e senza sapore. La tipica fiction Rai, scritta e diretta male, senza cultura, senza idee, senza coraggio, senza impegno, senza amore per il proprio lavoro. Provo ad argomentare elencando le mancanze stilistiche, storiche, politiche.

  • Un prodotto sciatto. La storia è presentata in modo didascalico, i personaggi sono stereotipati e privi di ogni sfumatura (eppure la vicenda che si sarebbe dovuta raccontare è piena di sfumature); non una sola frase, una sola battuta merita di essere ricordata, probabilmente ChatGpt avrebbe fatto di meglio; non ci sono idee di regia di alcun genere, prevale una visione da “assessorato alla promozione turistica” con frequenti riprese di una Roma meravigliosa, non toccata dalla guerra, tutta strepitose albe e campi lunghi fatti per innamorare turisti in vena di facili emozioni. La scena è piena di donnine intrepide mosse solo da passioni basilari (l’amore e la famiglia) e da maschi indecisi mossi solo da finalità meschine. E con un sacco di inutili sciatterie (Grandi che chiama continuamente il Re “altezza”, come se fosse un qualunque principotto; il quasi calvo Umberto II con un ciuffo ribaldo in mezzo alla fronte; il segretario del PNF Carlo Scorza con dei baffi mai visti prima, un campo lungo del Quirinale con tanto di stendardo presidenziale in bella vista e un campo lungo del Vittoriano con bandiera italiana priva dello stemma di Casa Savoia…). Ma nulla di peggio della storiella d’amore tra il giovane neoantifascista (del Partito d’Azione! guai a far sapere che esisteva il PCI!) e la nipotina di Grandi: inutile, malscritta, prevedibile dal primo secondo all’ultimo, ma probabilmente inserita perché – Boris 4 docet – “algoritmo vuole storia teen!
  • Una storia banalizzata. I personaggi raccontati sono prevedibili e caricaturali e questo porta a frequenti errori: Benito Mussolini non era così fanaticamente legato all’alleanza con i nazisti e neppure così smanioso di versare il sangue degli oppositori (altrimenti lo avrebbe versato, anche senza l’aiuto di un onnipresente capo dell’OVRA inventato di sana pianta), bensì consapevole della drammaticità della situazione, convinto che la guerra con la Russia dovesse in qualche modo essere fermata ma conscio dell’impossibilità di imporre la propria volontà a Hitler. Claretta Petacci è descritta come una olgettina, costantemente in lingerie, che quando parla al telefono (ovviamente rosa) con il Duce lo fa solo se distesa sul letto a pancia in giù e le gambette che oscillano, come Marylin Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde, ma con molta meno ironia, tranne nel momento della fuga, quando ricorda Maria Antonietta assediata alle Tuileries. Galeazzo Ciano non era un flaccido stupido ma un uomo cinico, ambizioso, corrotto eppure intelligente, convinto della necessità di farla finita con la guerra e con i nazisti (in questo coerente con la propria posizione del 1939) e sostenitore dell’ordine del giorno Grandi senza tutti quei retropensieri e quei tentennamenti raccontati nella serie. Ridicolo Vittorio Emanuele III spesso seduto sul trono come un re dei cartoni animati, mentre è noto che detestasse lo sfarzo del Quirinale e risiedesse il più possibile a Villa Savoia immerso in un tranquillo ménage altoborghese con la moglie, Elena, così come è noto che l’arresto di Mussolini non fu una pensata del giorno prima, ma un piano messo progettato da tempo, che aspettava solo il momento giusto per essere attuato. Ma soprattutto il protagonista – Dino Grandi – che non si capisce minimamente chi sia e che cosa voglia, perché si stia dando tanto daffare e per ottenere cosa: parlando di lui, tutti dicono sempre “l’ambizioso Grandi”, come se fosse l’unico ad esserlo in mezzo a tante sante statuine del presepe, ma alla fine passa per essere il “buono” della vicenda, quello che vuole a tutti i costi riportare pace e libertà in Italia, forse pure antifascista, certo umano e democratico. Una balla, Grandi fu fascista e il suo disegno politico era salvare il regime eliminando Mussolini, probabilmente per dare vita a un modello di autoritarismo reazionario sul tipo del salazarismo in Portogallo, magari con lui stesso a reggerne le fila.
  • Le ambiguità politiche. La fiction non prende posizione, non assume rischi. Non è raccontata una storia “antifascista”, ma “a-fascista”, in questo in perfetta linea con la società italiana di oggi. Il grande tema dell’antifascismo è ridotto a una polemica tra giovani e vecchi (“ci avete rubato il futuro! ci lasciate un Paese in macerie!”) e il giudizio storico sul Fascismo è lasciato ai fascisti che – sostanzialmente – presentano una lettura che forse pure Giorgia Meloni potrebbe condividere: “il Fascismo serviva per rimettere ordine nel Paese, evitare il caos, per molti anni ha fatto tante cose buone, ma ultimamente Mussolini si è isolato, ha perso io suo tocco magico e va sostituito”. Il Fascismo non “male assoluto”, quindi ma un episodio politico nella storia italiana complessivamente non negativo, peccato per la guerra, altrimenti sarebbe stato più o meno rose e fiori (e gli omicidi di oppositori? la soppressione delle libertà civili e politiche? le guerre di aggressione coloniale? le leggi razziali? tutte vicende non pervenute).

Insomma, d’accordo, non si poteva pretendere Shakespeare, ma che regista e sceneggiatori si fossero almeno presi il disturbo di guardarsi un paio di stagioni di The Crown beh, quello si!

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Se solo Giorgia avesse visto “The Crown”

Il signore baffuto e con l’aria accigliata è noto agli spettatori di “The Crown“. Si tratta di Sir Alan “Tommy” Lascelles, primo segretario di Sua Maestà e uno dei villain della serie Netflix, rappresentando la voce e il volto della conservazione, della tradizione più inflessibile, sempre intento a troncare e deludere ogni tentativo di modernizzazione, di cambiamento anche timido nell’eterno rituale monarchico.

Sir Alan ha percorso i lunghi corridoi moquettati di Buckingham Palace per oltre 30 anni, seguendo in silenzio i passi di 4 sovrani, ed essendo un uomo notevolmente intelligente ha capito molte cose dell’intimo funzionamento del sistema istituzionale britannico. Così – all’inizio degli anni ’50 – pensò bene di inviare una lettera al Times (sotto pseudonimo) per illustrare i c.d. “Lascelles Principles“, vale a dire i casi in cui il sovrano del Regno Unito può rifiutare al primo ministro la richiesta di scioglimento anticipato della Camera dei Comuni. Secondo Lascelles, quindi, nel sistema britannico il primo ministro – così onnipotente – non può pretendere di decidere in autonomia della data delle elezioni, ma il sovrano può attivarsi per prolungare la legislatura qualora si presenti una delle seguenti tre ipotesi:

a) il Parlamento in carica è ancora legittimato, vitale e in grado di svolgere il proprio lavoro;
b) può essere individuato un nuovo primo ministro in grado di governare con una maggioranza politica stabile per un ragionevole lasso di tempo;
c) nuove elezioni sarebbero un danno per l’economia del Paese.

Questi principi sono così seri, ragionevoli e concordemente accettati da aver ottenuto il rango di “convenzione costituzionale” e – in quanto tale – figurano tra le “fonti” del diritto costituzionale britannico, come ricorda il sito ufficiale del Parlamento e come ripreso in diversi altri contesti, accademici e politici. Ad esempio, verso la fine del 2020, sir Malcolm Jack – che aveva fino a poco tempo prima ricoperto la funzione di Clerck of the House of Commons – assimilabile a quella del nostro segretario generale della Camera dei Deputati – nel corso di una audizione parlamentare sul tema del mantenimento o abrogazione della durata prefissata della legislatura affermava che “il Sovrano non è coinvolto nella politica di partito, ma è certo coinvolto nella politica generale. Tali decisioni [lo scioglimento del Parlamento] adottate sulla base dei Principi di Lascelles, sono una questione che riguarda la politica in generale, della quale il Monarca è quindi parte e non la politica di partito“.

L’essenza del “premierato” britannico – origine e modello di tutti i premierati – può dunque essere sintetizzata nel seguente modo:

a) il premier non è eletto direttamente dal popolo, ma legittimato dalla maggioranza parlamentare che gli concede la fiducia;
b) i membri della House of Commons sono eletti con il sistema maggioritario uninominale a turno unico e sono – ciascuno individualmente e tutti nel loro complesso – titolari della funzione di rappresentanza politica e sovranità parlamentare;
c) il Monarca – in quanto capo dello Stato – non è un mero notaio della volontà del premier, ma mantiene poteri politici propri che si attivano in caso di divergenza tra leader del governo e maggioranza parlamentare, acquistando in questo caso una funzione arbitrale, come accaduto diverse volte nel corso degli anni (forse il caso più macroscopico è stata la staffetta Wilson-Callaghan del 1974, con tanto di cambio nella base parlamentare del governo).

Oggi leggo che la presidente Giorgia Meloni e il suo governicchio intendono introdurre anche in Italia il “premierato”. Ma questo premierato sarebbe totalmente estraneo al modello originale, dato che il “premier” non sarebbe espresso dalla maggioranza parlamentare, bensì votato dal popolo, il Parlamento non potrebbe in alcun caso sostituirlo con altro premier (interpretazione hard della Meloni) quindi la sola alternativa alla crisi sarebbero le elezioni (con buona pace del principio di separazione dei poteri e di controllo del Legislativo sull’Esecutivo), mentre il presidente della Repubblica sarebbe spogliato del suo ruolo di “arbitro della crisi di governo” e dunque verrebbe a contare meno del Re d’Inghilterra. Il Parlamento – infine – verrebbe eletto con una legge elettorale con premio di maggioranza collegato al premier, su modello del sistema pensato per eleggere sindaci e presidenti di regione, e quindi avremmo il medesimo esito: l’assemblea cesserà di avere una funzione politica propria per diventare un “votificio” ad uso e consumo del Capo, che avrà il potere di ricatto sulla sua stessa esistenza. Già oggi il Parlamento non conta quasi nulla, ma dopo la riforma conterrà niente, proprio come non contano niente i consigli comunali e i consigli regionali.

Naturalmente, si sta discutendo di dettagli non secondari, come ad esempio la possibilità di nominare un diverso premier in caso di crisi, pur rimanendo nel perimetro della maggioranza politica, ma questo nuovo aspetto farebbe venire meno il principio che ogni parlamentare ricopre la propria funzione “senza vincolo di mandato” e nel solo rispetto dell’interesse nazionale.

Un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo, la spogliazione dei poteri del presidente della Repubblica, un Parlamento controllato e privato di ogni possibilità di azione e i numeri sufficienti per controllare l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale e del presidente della Repubblica stesso.

No, presidente Meloni, questo non è “il premierato”, questa è una forma di dittatura elettiva, senza alcun contrappeso istituzionale. Non si pretende che Lei abbia letto Montesquieu per fare proprio lo “spirito delle leggi”, ma sarebbe stato bene se avesse almeno avuto il tempo di guardare qualche puntata di “The Crown“, così avrebbe visto Lascelles in azione e forse avrebbe capito che un sistema in cui il potere risiede nelle mani di uno solo non è mai un sistema che funziona bene.

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La strana idea di Roma del generale Vannacci…

In questi giorni tanti hanno commentato il Vannacci-pensiero, facendo l’esegesi del libro del generale nuovo idolo della Destra più estrema e quindi io non potrei certo aggiungere molto, tranne far notare l’abuso di riferimenti all’art. 21 della Costituzione sulla libertà di espressione (e ci mancherebbe) e – parallelamente – il fatto che nessuno si sia degnato di citare l’art. 52, ultimo comma, laddove si stabilisce che «L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica». E la democrazia è incompatibile con discriminazioni su base etnica, sessuale o di genere.

Ma la cosa che più mi incuriosisce è il collegamento tra il retaggio di Roma e la rivendicazione di “italianità”, qualsiasi cosa questa significhi. Il generale – che pure afferma discendere da Enea – dimentica che l’eroe epico fuggiva da Troia ed era quindi un profugo di guerra. Per citare il Proemio dell’Eneide:

«Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda / di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, / molto sofferse anche in guerra, finché ebbe fondato / la sua città, portato nel Lazio i suoi dei, donde il sangue / Latino, e i padri Albani e le mura dell’alta Roma

Insomma, il generale che detesta gli stranieri – soprattutto se poveri e in fuga – trascura che l’Eneide racconta di un profugo che fugge dalla sua città in fiamme, devastata dalla guerra. Enea – a quanto si apprende prozio del generale – viene dalla Turchia, ha perso tutto, tranne i suoi affetti più cari. Si mette per mare e la sfortuna lo perseguita malgrado sia un uomo pio, una persona perbene. Soffre le pene dell’inferno e tra mille peripezie riesce a sbarcare in Italia – la sua terra promessa – dove con coraggio e operosità si costruisce una nuova vita.

Inoltre il generale traccia un ardito collegamento tra Roma, Italianità e “tratti somatici”. Ma di nuovo fa confusione, perché se c’era una cosa che non importava più di tanto ai Romani era la provenienza. Roma ebbe certo molti imperatori nati in Italia, ma ebbe pure imperatori illirici (ben 13, che salvarono l’Impero dal crollo nel III secolo), ispanici, galli, siriaci, libanesi, turchi, arabi, iracheni, nordafricani… Settimio Severo aveva presumibilmente dei tratti più simili a quelli dei parenti di Paola Egonu che a quelli del generale e – tra i sovrani più importanti – si devono per forza ricordare Traiano (ispanico), Diocleziano (croato) e Costantino (serbo). E turco era San Paolo, che evitò di essere torturato ad Efeso proprio perché rivendicò la propria cittadinanza romana, ottenuta alla nascita («civis romanus sum» disse ai propri aguzzini, che immediatamente si rimisero in riga…)

Questo perché Roma era, dal punto di vista etnico e culturale, una realtà meticcia e bastarda, un melting pot in cui il senso di appartenenza alla comune romanitas prevaleva sulla “limpieza de sangre” e se davi il sangue per lo Stato, pagavi le tasse e rispettavi l’Imperatore non c’erano problemi di sorta…

Però, si potrebbe obbiettare che io scrivo dell’Età imperiale, mentre la Roma repubblicana era tutt’altra cosa, più pura dal punto di vista etnico e culturale: la Roma voluta da Romolo, pure lui antenato in linea retta del generale. Ma va ricordato, però, che quando l’Imperatore Claudio (48 d.C.) propose in Senato di concedere ad alcune città della Gallia la cittadinanza romana in base ad una sorta di “ius culturae” (per richiamare la dimenticata proposta di legge del PD) – e incontrò su questo l’opposizione di senatori che la pensavano esattamente come il generale – fu costretto a sottolineare ai padri coscritti che Roma era nata dal nulla e che da subito si fuse con altri popoli e che la stessa stirpe dell’Imperatore era di origine Sabina (Claudio evidentemente non era etnicamente puro come Vannacci). E citò proprio Romolo, ricordando che «Romolo, fondatore della nostra città, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini». E aggiunse – per spazzar via la paura dei conservatori, terrorizzati dalle cose nuove:

«O padri coscritti, tutte le cose che si credono ora antichissime, furono nuove un tempo: dopo i magistrati patrizi vennero i plebei, dopo i plebei i Latini, dopo i Latini quegli degli altri popoli italici. Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi».

Non lo dico io, lo dice Tacito (Annales, XI, 24). Che consiglio di leggere, anche se nella hit parade dei best sellers Amazon questa settimana non è messo benissimo.

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Raccontare la Rivoluzione

Ho iniziato almeno tre volte a guardare “Maria Antonietta“, la serie Sky dedicata alla regina vanesia e sfortunata, sciocchina da giovanissima, figura tragica nella maturità. Il problema è che questa – come tutte le serie dedicate a figure femminili uscite negli ultimi anni – è totalmente priva di originalità e di storicità. Si racconta sempre e solo la stessa storia, banale ma tanto politicamentecorretta: la ragazza peperina e impertinente alle prese con un tetro mondo fatto di regole e vincoli, architettato dai maschi, per i maschi, con le donne eterne vittime. Insomma pistolotti mal costruiti e molto noiosi.

Però il tema è interessante: si può raccontare una vicenda complessa e intricatissima come quella della Rivoluzione Francese senza cadere nel macchiettistico o nel banale? La risposta è sì, purché si rinunci alle serie (soprattutto se prodotte in un Paese culturalmente limitato come gli Stati Uniti) e si guardi al cinema, grande arte visiva del ‘900. E ci sono tre titoli in particolare che considero sempre bellissimi e perfetti per entrare dentro la carne e il sangue del quinquennio più influente della storia europea degli ultimi 1000 anni.

La notte degli inganni

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1791 l’oscuro giudice monsieur Destez sale incespicando le scale della drogheria di monsieur Sauce, si guarda attorno assonnato e intimidito, compie un paio di passi verso l’uomo vestito da valletto e si inchina dicendo “Buonasera, Maestà!”

«C’erano cinque persone. Il pover’uomo con questa frase li colpì tutti e cinque: il “Buonasera Maestà” fu la ghigliottina per Luigi XVI, Maria Antonietta e Madame Elisabeth; per il delfino l’agonia al Tempio, per Madame Royale, la prigione, l’estinzione della sua stirpe e l’esilio». (Victor Hugo).

Il primo esempio che viene in mente è un gioiello molto italiano: Il Mondo Nuovo (1982), di Ettore Scola, con Marcello Mastroianni e Hanna Schygulla. Si tratta essenzialmente della storia di un giorno, un giorno solo, ma forse le 24 ore più importanti della Rivoluzione – più ancora della Bastiglia – perché segnarono la fine di un’illusione, quella della “Rivoluzione dall’alto”, dell’esplosione controllata in laboratorio. Mi riferisco alla giornata (anzi, alla nottata) tra il 21 e il 22 giugno 1791, quando re Luigi XVI cercò di fuggire da Parigi dove era sostanzialmente detenuto per trasferirsi in una fortezza ai confini con le terre asburgiche, dalla quale negoziare una Costituzione a lui più favorevole.

La fuga del re fu il punto di rottura del doppio inganno: da un lato il sovrano che si fingeva sostenitore della Rivoluzione, mentre in realtà il suo livello di sopportazione era stato già abbondantemente superato da tempo: Luigi voleva riforme nel sistema, non del sistema e quindi l’uguaglianza fiscale la considerava accettabile, ma quella politica con la fine dell’assolutismo regio assolutamente no. Dall’altro lato l’élite rivoluzionaria che non si fidava del re e decise di tenerlo virtualmente prigioniero nella reggia, privando lui e la sua famiglia di ogni forma di autonomia, riservatezza e svago, ma fingendo che no, il re è liberissimo di fare, dire e andare dove vuole, solo che sta tanto bene lì, chiuso in casa alle Tuileries.

Senza farla troppo lunga, il re fugge con la regina, i figli, la sorella e pochi cortigiani al seguito, la fuga sta quasi per riuscire ma al penultimo cambio di cavalli – nel pieno della notte – il sovrano viene riconosciuto e tutta comitiva ricondotta a Parigi in un viaggio interminabile durato oltre 24 ore, compiuto a passo d’uomo e ovunque tra due ali di folla silenziosa e ostile. Per chi è interessato al “minuto per minuto” suggerisco Un re in fuga di Timotht Tackett (Mulino, 2006), per chi invece vuole farsi del bene suggerisco il film che ho citato.

Ne “Il Mondo Nuovo” una carrozza segue quella del re in fuga. All’interno un cinico e disincantato Giacomo Casanova, amatore stanco e in disarmo (Marcello Mastroianni, magnifico come sempre), una nobildonna della corte terrorizzata per la fine del suo Mondo (Hanna Schygulla), Thomas Paine intellettuale illuminista a disagio sia nell’Ancien Regime che nel caos del populismo rivoluzionario (Harvey Keytel). E poi un ragazzo entusiasta della Rivoluzione e del cambiamento in atto, uno scrittore libertino inseguito dai debiti (Restif de la Bretonne) e un prete incerto sul da farsi…

Un microcosmo della Francia negli anni della Rivoluzioni, con le sue passioni, le sue paure, le sue illusioni e le sue delusioni… Un po’ saggio storico, un po’ viaggio picaresco e qualche ricordo di “Ombre Rosse” di John Ford. E una frase magnifica, buttata lì da Casanova-Mastroianni al giovane giacobino:

Come tiranno vi siete scelti il Popolo. Tra tutti i tiranni quello più spietato, capriccioso e imprevedibile.

L’amico difficile

9 Termidoro 1794, Maximilien de Robespierre tentò di parlare, ma la voce ebbe un calo e da qualche angolo della Convenzione qualcuno urlò è il sangue di Danton che ti soffoca! Suprema, definitiva accusa a Robespierre che non replicò oltre, travolto dalle grida di quanti si opponevano al regime del Terrore. 24 ore dopo era morto, ghigliottinato al termine di quello che può essere a tutti gli effetti definito un “colpo di stato parlamentare”.

Su Termidoro si può dire tutto, ma una cosa è certa, Robespierre aveva nelle mani – se non nella gola – il sangue di Georges Jacques Danton, ghigliottinato al termine di una lotta di potere all’interno dell’aristocrazia rivoluzionaria appena pochi mesi prima, nell’aprile del 1794. Gli ultimi mesi di vita di Danton e il suo complicato rapporto con Robespierre sono raccontati da Danton, di Andrzej Wajda con Gérard Depardieu (1983). Un grande film, con una costruzione teatrale, costruito attorno alla personalità debordante di Depardieu, che è perfetto – anche caratterialmente – per rappresentare Danton.

La trama è solo apparentemente semplice: Danton – che non era certo uno stinco di santo – ritorna a Parigi dopo un periodo di esilio involontario per mettere fine alla fase estremista del Terrore e dare alla Rivoluzione uno sbocco più moderato, anche lui – come Luigi nel 1791 – cercava di mettere ordine nel caos, diventando pompiere di quell’incendio che aveva così tanto contribuito ad appiccare (Voglio che finisca il Terrore proprio perché sono uno di quelli che lo ha instaurato urla Danton a Robespierre durante il loro tumultuoso colloquio).

Inizialmente cerca di raggiungere lo scopo attraverso un accordo con Robespierre – la scena dell’incontro a due attorno a una tavola imbandita è memorabile – ma le posizioni sono inconciliabili, Danton tenta allora di riallacciare i rapporti politici con la propria “corrente” e agire sul piano parlamentare, ma il gioco non riesce, i dantoniani vengono dichiarati decaduti dalla Convenzione, arrestati, processati e ghigliottinati, tutto nell’arco di meno di una settimana.

Il film di Wajda – regista polacco ai tempi dell’autoritarismo comunista – racconta l’eterna lotta tra utopismo e realismo, tra compromesso e rigore, tra fanatismo e senso del limite e in questo le poche giornate raccontate rappresentano uno spaccato non solo della Rivoluzione Francese, ma di ogni grande mutamento politico.

Il film si apre con un bambino dentro una tinozza, costretto – a suon di schiaffoni – ad imparare a memoria la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e termina con lo stesso bambino che recita il Sacro Testo a un Robespierre relegato a letto, vittima del rimorso e della paura.

Chi è il bambino spaventato? la Rivoluzione? la Francia? la Libertà?

L’intrepida cortigiana

Nel 2001 Eric Rohmer portò sullo schermo le memorie della signora Grace Elliott, ex amante del principe di Galles (futuro Giorgio IV) e poi ex amante del Duca d’Orleans trasferitasi a Parigi dove frequenta l’ambiente di corte e mantiene un’amicizia con il Duca anche terminata la loro relazione: un’amicizia intima, affettuosa e leggera, mentre tutto attorno il fuoco della Rivoluzione inizia a divampare.

Grace Elliott – cresciuta in un Paese dove la monarchia costituzionale esisteva da generazioni – inizialmente appoggia la Rivoluzione, fintanto che questa significa porre fine alle ingiustizie più evidenti e crudeli, senza però mettere in discussione il suo mondo fatto di salotti eleganti, riverenze e rendite garantite da uomini potenti.

La parabola della Rivoluzione dalla Festa della Federazione (luglio 1790) alla caduta di Robespierre (luglio 1794) vista attraverso il salotto di Madame Elliott e il suo turbolento rapporto con il Duca d’Orleans, personaggio che la Storia ha costantemente descritto come disperatamente stupido e vile. In scena la vicenda di una donna alla deriva, che di fronte allo sgretolarsi del suo Mondo acquista un coraggio impensato, una determinazione e una rettitudine morale che mai aveva avuto in precedenza.

Il film fu molto controverso perché – tratto quasi letteralmente dalle memorie di Grace Elliot (Journal of my Life during the French Revolution, in versione italiana edito da Fazi Editore, 2001) – offre una lettura aristocratica degli anni della Rivoluzione, mostra l’altro lato della medaglia, accende i riflettori sui perdenti di quell’epica vicenda e li mostra come certo erano: esseri umani spaventati, stracci nella tempesta. Un film che va visto, per tante ragioni ed una in particolare: è visivamente magnifico, con una fotografia raffinatissima, ispirata alla pittura del tardo Settecento e del primo Romanticismo, dal punto di vista strettamente artistico è certo il film più bello dei tre che ho ricordato.

E quindi? si può raccontare visivamente la Rivoluzione? Certo, purché si lasci stare Netflix e ci si volti all’indietro, a Scola, Mastroianni, Depardieu, Wajda o Rohmer…

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Un 25 aprile nuovamente nell’Isontino

Anche quest’anno, come già accaduto in passato, il 25 aprile lo celebro fuori Udine, oggi ospite della cittadina di San Canzian d’Isonzo, dove ho avuto il privilegio di tenere quella che – assai pomposamente – si usa definire “orazione civile”. Di seguito il testo…

«Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano

(Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947)

Signor Sindaco, cittadine e cittadini di San Canzian d’Isonzo,

Ringrazio per l’onore – in larga parte immeritato – che mi è stato attribuito, consentendomi di portare un contributo di riflessione sulla giornata del 25 aprile, che oggi in tutta Italia viene celebrata per la 78° volta, a ricordo perenne della Libertà riconquistata e con essa della Democrazia e dell’indipendenza dall’occupazione militare straniera.

Ho scelto di iniziare il mio contributo condividendo con voi una citazione de “Il sentiero dei nidi di ragno”, il primo romanzo di Italo Calvino, che racconta la storia di Pin, partigiano quasi bambino. Ho scelto queste poche righe non solo per il mio amore verso la poetica di Calvino, ma anche perché c’è un riferimento importante sul ruolo dei singoli, degli anonimi e delle loro scelte, che talvolta inconsapevolmente contribuiscono a scrivere e definire la Storia e questa importanza della scelta individuale da parte di persone tra loro diversissime – dall’ufficiale monarchico di nobili origini al tornitore o al bracciante comunista, dal piccolo borghese cattolico all’accademico liberale – si vede particolarmente nella storia della Resistenza, che fu somma di scelte individuali, la decisione autonoma di donne e uomini liberi , non il prodotto della volontà di un uomo solo, come invece fu la scelta di gettare il Paese nella fornace della guerra, compiuta da Benito Mussolini nel giugno del 1940, con il parere contrario del Re, dello stato maggiore e di pezzi importanti del partito e del governo, tutti convinti in cuor loro che la scelta di lanciare i dadi di ferro fosse un errore, ma tutti troppo pavidi, troppo compromessi per mettersi di traverso alla volontà del tiranno.

Nel preparare questo intervento, ho pensato di rileggere il testo della L. 260 del 1949 che istituiva come ricorrenze festive civili le giornate del 2 giugno, del 1° maggio, del 4 novembre e – appunto – del 25 aprile, nonché la discussione parlamentare ad essa collegata. Ci fu parecchio dibattito attorno a quel provvedimento, ma non – come si potrebbe pensare leggendo le polemiche artificiose di questi giorni – sulla data del 25 aprile, bensì su quella del 20 settembre, ricorrenza della Breccia di Porta Pia, creandosi attorno a questa una disputa molto interessante, a testimonianza sia dell’importanza che nel 1949 aveva la “Questione Cattolica” sia della qualità culturale della classe politica di allora. Sulla rilevanza del 25 aprile come momento centrale della nostra Storia nazionale nessuna obiezione, tranne la proposta avanzata dall’on. Giorgio Almirante di non includere una “data di lutto” – sono ovviamente parole di Almirante, non mie – tra le festività nazionali, proposta rigettata a larghissima maggioranza dall’Assemblea che approvò l’inserimento del giorno della Liberazione nell’elenco delle ricorrenze solenni della Repubblica tra “vivissimi e prolungati applausi”, come si legge nel resoconto stenografico consultabile facilmente sul sito istituzionale della Camera dei Deputati.

Quel provvedimento legislativo per certi versi diede corpo, diede vita al I comma dell’articolo che apre la nostra Costituzione: “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 4 novembre per il ricordo dell’Unità nazionale; 2 giugno per la forma di Stato repubblicana; 25 aprile per la Democrazia riconquistata e 1° maggio per la centralità (e la dignità) del Lavoro in ogni sua forma.

Insomma, il 25 aprile come data che si inserisce pienamente in quella semplice ma esaustiva descrizione dell’Italia che la Costituzione ci propone nel suo primo articolo: repubblicana, democratica, fondata sul lavoro. Una data che è allo stesso tempo punto di arrivo e punto di partenza e che in questa duplice natura rileva tutta la sua centralità e tutta la sua perdurante vitalità storica, civile e morale. Eppure, pare essere una data – anno dopo anno – sempre più oggetto di critica, di revisione, di negazione.

Il 25 aprile fu innanzitutto un punto di arrivo della ventennale lotta delle forze della democrazia contro la dittatura fascista. Questo è bene ricordarlo, perché da un po’ di tempo si tende troppo spesso a raccontare che “il Fascismo ha fatto anche cose buone”, magari relegando tutto il marcio nella legislazione razziale del 1938. Si dimentica però che prima delle leggi razziali – il punto più basso raggiunto dal Fascismo – il giudizio storico su Mussolini e il suo regime era già possibile darlo in modo netto, in quanto quel regime aveva consolidato il proprio potere assassinando o torturando gli oppositori politici, truccando le elezioni, mettendo fuori legge tutti i partiti tranne uno, eliminando ogni forma di pluralismo civile e sociale, provocando una sanguinosa guerra coloniale, bombardando le città della Spagna Repubblicana, attuando politiche di repressione etnica e culturale contro la minoranza slovena, mandando in confino gli omosessuali, relegando le donne al focolare domestico e infine entrando in una guerra dissennata dalla parte sbagliata, appoggiando il nazismo anche quando invase l’Italia, collaborando addirittura nelle azioni di rappresaglia sanguinosa contro la popolazione civile inerme e infine lasciando il Paese in un cumulo di macerie. Poi certo, la riforma dell’INAIL o l’istituzione dell’IRI non furono cose sbagliate, ma quello che conta non è estrarre dal cesto singoli provvedimenti per dimostrare chissà che cosa, conta il giudizio storico complessivo e quello sul Fascismo è di condanna dura e senza attenuanti.

Il 25 aprile però non è solo la data della riconquistata libertà, ma anche il momento di maggiore vivacità e passione della resistenza armata contro l’invasione nazista. A questo proposito è giusto sottolineare che la Resistenza fu anche un grande evento militare, per nulla insignificante come talvolta da destra si vuole raccontare. Servirono alla causa alleata le brigate partigiane (circa 200.000 effettivi, di cui 35.000 donne) alle quali vanno aggiunti coloro che in modo saltuario fornirono appoggio o supporto, così come i molti giovani che attraversarono le linee nemiche per unirsi all’Esercito Cobelligerante Italiano, che alla fine del conflitto contava circa 300.000 soldati, pienamente integrati e operativi con le forze alleate britanniche e statunitensi.

Fu uno sforzo umano e militare importante, su questo potrei citare memorialistica o riflessioni di autori italiani, ma forse è molto più indicativo il rapporto della British Special Force britannica dell’aprile 1945. Il rapporto elenca i risultati conseguiti dalle azioni partigiane (100 città liberate, 40.000 prigionieri catturati, infrastrutture, linee di comunicazione e fabbriche salvaguardate) concludendo che:

Il contributo partigiano alla vittoria alleata in Italia fu assai notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Con la forza delle armi essi aiutarono a spezzare la potenza ed il morale di un nemico di gran lunga superiore ad essi per numero. Senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante o così poco dispendiosa.”

Ma la Resistenza ebbe un valore non solo militare, ma politico e civile e – in questo – oltre che punto di arrivo, come ricordavo poco fa, fu anche punto di partenza, uno spartiacque tra la vecchia Italia reazionaria e monarchica e la nuova Italia che – pur con mille contraddizioni e contrasti – sarebbe nata e avrebbe prosperato nei decenni successivi. Si dice spesso che “la Storia non si fa con i se”, ma non sono d’accordo, la Storia si fa anche con i se, perché analizzando i punti di svolta della vicenda umana si cerca di capire che cosa sarebbe successo se invece di prendere una direzione si fosse presa un’altra. Molti critici della Resistenza dicono “in fondo, avrebbero vinto gli Alleati comunque, e senza i partigiani ci saremmo risparmiati un sacco di morti”.

Chissà, magari in termini strettamente numerici forse è vero, ma che Italia sarebbe stata questa Penisola pigra e indifferente che alcuni avrebbero preferito? Molto probabilmente un Paese considerato sconfitto e non liberato, un Paese mutilato più di quanto non lo sia stato con il Trattato di Parigi del 1947, considerate le ambizioni jugoslave su Trieste e non solo, così come gli appetiti francesi non solo sulla Valle d’Aosta, ma anche su Ventimiglia e le province di Imperia e Savona. Probabilmente saremmo stati un Paese meno libero di sceglierci il nostro destino, vincolati alle decisioni delle potenze vincitrici, come fu per la Germania e per il Giappone e quindi – in linea di massima – saremmo rimasti con la Monarchia, dato che il Regno Unito – che allora aveva ancora interessi imperiali sul Mediterraneo – preferiva di gran lunga che a Roma vi fosse una dinastia indebolita e screditata piuttosto che una nuova democrazia vitale e legittimata dalla fiducia popolare.

Infine, ricordare la Resistenza e celebrare degnamente il 25 aprile significa anche ricordare a noi stessi le passioni, le speranze e il lascito morale delle donne e degli uomini che fecero la scelta giusta. Una scelta di grande umanità e di grande coraggio nel rifiutare la barbarie e l’oscurità. Anche su questo potrei fare molti esempi, cogliere citazioni commoventi e dare libero sfogo alla retorica, ma preferisco ricordare due fatti relativi ad un momento “nostro” della Resistenza, quello dell’esperienza della Repubblica Partigiana della Carnia, la più vasta delle Repubbliche Partigiane del 1944, con circa 40 comuni sotto il proprio controllo. La cito non solo perché nella nostra Regione l’esperienza resistenziale fu particolarmente importante – circa 25.000 effettivi, con un tributo di sangue di 3500 morti e 1800 feriti – ma perché durante le poche settimane di quella Repubblica fu possibile avere un’anticipazione del senso di umanità, solidarietà e civiltà che avrebbe di lì a poco contraddistinto l’opera di scrittura della Costituzione, grazie al fecondo incontro tra le culture cattolica, marxista e liberale: uno dei primi provvedimenti presi dal governo repubblicano della Carnia fu l’abolizione della pena di morte “per ogni tipo di crimine”, a dimostrazione di supremo amore per l’umanità in un tempo e in un luogo in cui la morte era un passeggero fin troppo presente nell’accompagnare le vite degli uomini e delle donne di allora e poi – poco dopo – il decreto per l’immediata riapertura delle scuole elementari, perché la normalità sono i bambini che vanno a scuola e questo – consentite la nota personale – da professore di liceo mi commuove sempre quando ci ripenso.

Di questi esempi, di questa profonda fiducia nel genere umano si nutrì l’esperienza della Resistenza. E certo, non voglio nascondere che vi furono anche pagine pessime, eventi tragici, momenti che vorremmo cancellare dalla nostra memoria – perché la Resistenza fu storia di uomini e di donne con i loro limiti e i loro errori – ma anche in questo caso, quello che realmente conta è il giudizio storico complessivo. Che non può che essere uno e chiaro, chi scelse la Resistenza scelse di stare dalla parte giusta: quella della democrazia, dell’indipendenza nazionale, della libertà, del pluralismo e questa scelta – una volta fatta dai diversi attori (dai democristiani ai comunisti, passando per i socialisti, gli azionisti e i liberali) fu scelta definitiva e irreversibile. È per questa ragione che una medaglia d’oro della Resistenza come Paolo Emilio Taviani – democristiano della “destra” anticomunista – un giorno definendo le relazioni turbolente tra la DC e il PCI negli anni più duri del loro contrasto disse che “forse non sempre fummo fedeli alla lettera della legge, ma rispettammo sempre lo spirito della Costituzione”, cioè quel patto inviolabile tra soggetti politici diversi che produsse una delle carte costituzionali più avanzate d’Europa, la cui stesura non venne rallentata o messa in discussione neppure quando – nel 1947 – si ruppe il patto di governo tra le forze antifasciste e Alcide De Gasperi sposò la causa del centrismo anticomunista.

La Resistenza fu quindi un fenomeno ricco di passioni e di contraddizioni, così come furono i primi anni di vita repubblicana e – in quanto accadimento storico – ha un suo preciso inizio e una sua precisa fine, ma – al di là del dato strettamente storico – fu un esempio di collaborazione tra forze diverse, di unione nazionale e civile capace di andare oltre le differenze, di spontaneo coraggio e profondo amore per la propria terra. Ed è per questa ragione che ogni volta che nel Mondo si verifica un’invasione militare violenta e ingiusta da parte di una potenza con velleità di asservimento imperiale e a fronte di questa un popolo inerme sceglie di combattere e di non piegarsi, lì rinasce lo spirito della Resistenza. E nella vicinanza a quel popolo ritroviamo noi stessi.

Signor Sindaco, cittadine e cittadini di San Canzian d’Isonzo, celebriamo oggi con gratitudine il coraggio e la volontà dei nostri padri e dei nostri nonni, di quegli uomini e di quelle donne che – per riprendere la citazione di Italo Calvino – attraverso i loro gesti anonimi fecero la Storia. Furono dalla parte giusta e a noi resta il dovere del ricordo, il fallace tentativo d’essere degni del loro esempio e la domanda più difficile tra tutte: fecero la cosa giusta, noi cosa avremmo fatto se fossimo stati al posto loro?

Viva la Repubblica, viva l’Italia, viva il 25 aprile!

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Il “Merito”, regalato alla retorica della Destra

Quando la politica era una cosa seria, il mio ministero si chiamava “della Pubblica Istruzione”. Poi però, nei mesi ruggenti del governo D’Alema, il Centrosinistra – con scelta dissennata – decise di eliminare l’aggettivo, che da allora non fu più ripristinato (legge Bassanini quater del 1999).

L’Istruzione smetteva di essere “pubblica”, chissà mai perché!

Ieri si è inserita nella denominazione del ministero la parola Merito. È una fesseria ovviamente, ma ormai si governa con i feticci e la comunicazione è più importante dei contenuti, della visione.

Però la parola “Merito” è interessante, perché si tratta di un concetto di Sinistra, regalato alla Destra, che lo distorce in “meritocrazia” cioè – in sintesi – in una nuova forma di aristocrazia, basata su un “merito” che non è tanto oggettiva conquista di risultati frutto di impegno e fatica, quanto la difesa di una posizione ottenuta grazie a condizioni di partenza vantaggiose perché è più facile diventare un accademico se figlio di accademici o notaio se figli di notai e la condizione sociale di partenza rende più agevole la frequenza di scuole migliori, in luoghi migliori, dove si conoscono le persone giuste, fondamentali per il futuro.

Invece il merito è di Sinistra, perchè, in campo sociale, l’opposto del merito non è il “demerito”, bensì il privilegio. Ce lo ricorda Antonio Gramsci in una lettera del 1924:

“Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti.”

La scuola deve essere aperta, deve essere inclusiva (in tutti i sensi), deve assolutamente essere pubblica ma deve anche essere in grado di trasmettere realmente conoscenze e competenze solide e complesse, per ritornare un effettivo ascensore sociale, il grande strumento a disposizione di chi – partendo da posizioni svantaggiate – può realizzare a pieno il proprio sogno di vita. Una scuola che non si pone il problema della valorizzazione del merito diventa un diplomificio, perde valore sociale, perde utilità, cessa di essere uno strumento fondamentale per l’affrancamento e la crescita civile delle persone meno abbienti, non modifica in nulla gli equilibri del potere sociale ed economico.

Concetto Marchesi, difendendo in Assemblea Costituente il principio del “merito” affermava nella seduta del 22 aprile 1947:

“Da secoli, onorevoli colleghi, il figlio del contadino e dell’operaio continua a fare il contadino e l’operaio. Nessuno vieta al figlio del contadino e dell’operaio di salire al grado di primo ministro o diventare scienziato ed artista di eccezionale valore, nessuna legge lo vieta, nessun padrone di fabbrica o di terra lo impedisce; lo impedisce un padrone inesorabile e invisibile: la tirannia del bisogno. Non è un problema sentimentale questo; non si tratta di generosità d’animo che apra al povero la via della elevazione economica e intellettuale; non si tratta di un beneficio che la fortuna dei pochi debba concedere alla miseria dei più. Se si trattasse di un beneficio noi lo respingeremmo risolutamente. Noi combattiamo per la conquista di diritti; e ogni beneficio è, sotto certi riguardi, una negazione di diritto, perché ogni beneficio è revocabile.”

Non è il “merito” il nemico dell’uguaglianza – come una certa visione livellatrice tardosessantottina sembra credere – ma è il bisogno. La valorizzazione delle capacità e dell’impegno va a braccetto con un investimento forte per il sostegno dell’Istruzione pubblica, con risorse ingenti nelle strutture, nella didattica, nella creazione di un ambiente di apprendimento inclusivo, capace di consentire a ciascuno di dare il meglio di sé, senza “classi pollaio”, senza riforme continue unite solo dal desiderio di tagliare ore di studio e risorse, senza troppe chiacchiere su progetti o esperienze che mirano a ridurre le ore sui banchi, trasformando la scuola da luogo formativo a luogo esperienziale.

Insomma, per riprendere Antonio Gramsci e Concetto Marchesi, non dobbiamo fare la guerra al “merito”, ma al “bisogno”. E dobbiamo riappropriarci di quella parola che oggi la Destra usa per nascondere dietro un lenzuolo di brillante retorica la propria visione classista ed escludente.

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Un sognatore senza sogni

Pare che quando giunse a Parigi la notizia della morte di Napoleone, dopo 6 anni di esilio a Sant’Elena, una dama della corte di Luigi XVIII esclamasse “Mio Dio, che avvenimento!”

“Non più. Ora è solo una notizia, Madame”, rispose Talleyrand, presente alla scena.

Anche la morte di Michail Sergeevič Gorbačëv (per noi Gorbaciov) è solo una notizia, non un avvenimento. Diverso sarebbe stato se non avesse perso il potere, dal momento che avremmo rivisto tutto il solenne e tenebroso cerimoniale sovietico: la programmazione radio e televisione sostituita da musica classica per ore, forse per giorni, il via vai di Zil scure da e verso il Cremlino, attentamente spiate dai satelliti USA, la maggiore o minore vicinanza dei gerarchi alla bara aperta, le congetture dei “cremlinologi” e le schede dei possibili successori al potere assoluto, più o meno come quando inizia un conclave.

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In Occidente adoriamo Gorbaciov, l’uomo che ci ha liberati per un po’ dall’incubo dell’infinita notte nucleare, incubo nel quale siamo ricaduti da qualche mese, da quando cioè il nuovo tiranno russo e la sua cricca di gerarchi ad alto tasso alcolemico hanno preso a parlare di bombe atomiche con la stessa sguaiata leggerezza con la quale si può discutere dei mortaretti di capodanno. In Russia lo amano un po’ meno, in fondo si tratta di una nazione di sudditi, più interessati alla grandezza dell’insieme che alla libertà dei singoli e il fallimento delle politiche economiche gorbacioviane unito alla fine dello status di Superpotenza non è stato mai perdonato.

Gorbaciov è stato grande suo malgrado. Il suo scopo non era certo quello di sostituire l’Unione Sovietica con una grande e compiuta democrazia “Western Style”, ma di riformare la struttura economica dell’Impero, frenarne il declino, senza per questo demolire la natura autoritaria del sistema. L’obiettivo era la liberalizzazione, non la democratizzazione e Gorbaciov fu più simile a un despota illuminato, a uno zar riformatore che taglia la barba ai boiardi e distribuisce grano al popolo, piuttosto che a un novello Benjamin Franklin.

Però un riformismo dall’alto, guidato e controllato dal Cremlino che ne avrebbe dovuto decidere fasi, tappe e confini per ristrutturare l’intero sistema economico, liberalizzare il sistema politico ma salvaguardarne l’essenza ideologica e il ruolo guida del PCUS si rivelò impossibile. Non so bene dove Gorbaciov volesse arrivare, se avesse in mente un modello di evoluzione simile a quello coevo della Cina di Deng Xiaoping o qualcosa di più originale, questo perché dopo un primo biennio di entusiasmo e genuino supporto al riformismo gorbacioviano la situazione iniziò a sfuggire di mano e il cocchiere dovette inseguire i cavalli.

Forse l’URSS aveva effettivamente fatto il suo tempo, come intuì con straordinario acume Ronald Reagan, l’uomo dello storico “mr. Gorbaciov, tear down this wall!” pronunciato davanti alla Porta di Brandeburgo, oppure il sistema si sarebbe potuto riformare economicamente, salvaguardandone la natura autoritaria come avvenne in Cina, ma a Gorbaciov mancava la crudeltà dei dirigenti cinesi, la loro disponibilità a versare il sangue della dissidenza… non ci furono repliche moscovite dei massacri di piazza Tienanmen e le vittime della repressione sovietica – a Riga o a Tbilisi – furono di gran lunga inferiori a quelle provocate dalla Celere di Mario Scelba negli anni ’50. In questo fu simile a un altro riformatore sfortunato: Luigi XVI, che sperava di aggiustare l’economia francese mantenendo i privilegi feudali in capo alle classi egemoni e salvaguardando l’assetto assolutista ma che rifiutò sempre di usare la forza per imporre la propria volontà, fino a quando – anche lui – fu travolto dal meccanismo che aveva messo in moto.

URSS si dissolse nel 1991, ma politicamente questo era già avvenuto nel 1989, con la perdita dell’Impero. Gorbaciov fu archiviato anche con una certa ingratitudine anche se all’estero la sua popolarità e l’affetto per la sua persona rimasero sempre alti.

Non sempre gli anni successivi alla perdita del potere furono all’altezza della sua fama e del suo ruolo nel determinare la Storia del Mondo. Ho sempre trovato malinconico, ad esempio, il suo accettare di prendere parte a spot pubblicitari, come quello della Louis Vuitton – marca iconica del lusso capitalista – con Gorby in una berlina di classe, con sul sedile a fianco a lui una borsa di gran pregio, intento ad osservare quello che resta del Muro di Berlino.

Quello spot mi aveva fatto pensare a Geronimo, il capo Apache sconfitto, imprigionato e diventato fenomeno da fiera. Lo soprannominavano “il Sognatore”, chissà se anche Gorby a suo modo lo era stato. E chissà se sapremo mai quale fosse il suo sogno.

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Ma dovrei votare?

Ho scritto varie volte che non avrei votato nelle prossime elezioni politiche. Fino al 2018 non ho fatto lo schizzinoso e ho accettato ogni porcata “perché sennò e peggio”, un ricatto politico bello e buono. Negli anni ho visto la parte politica che ho sostenuto e nella quale militavo stravolgere la scuola, stravolgere la sanità, votare riforme del lavoro contro il lavoro, fare strame della Costituzione e ogni volta che ho protestato sono arrivati bravi e onesti militanti con lo stomaco capace di digerire anche le pietre a dire “ehhh ma sennò arriva la destra” in un inarrestabile gioco al ribasso.

Dal 2018 ho scelto di passare all’astensione dato che non vedo alcuna utilità nel votare con una legge elettorale prevalentemente proporzionale a sbarramento irrisorio, liste bloccate e partiti totalmente inaffidabili, pronti a qualsiasi basso compromesso pur di rimanere al potere Non è un fatto polemico, semplicemente trovo sterile la concessione della delega totale e in bianco in favore di soggetti politici verso i quali non ripongo la minima stima o fiducia. E l’argomento “ma siamo i meno peggio” mi ha stancato, dato che anche il male minore è pur sempre un male…

La crisi cambia qualcosa? Solo in parte…

Sono pronto a votare un partito di stampo progressista che risponda alle seguenti condizioni:

1) ponga al centro del programma le questioni ambientali e i diritti in campo sociale ed economico;
2) non abbia sostenuto riforme strumentali o frivole della Costituzione, ma consideri la Carta del 1948 come imprescindibile punto di riferimento culturale e politico, non come impiccio da rimuovere o santino da abbellire;
3) selezioni i propri candidati in modo trasparente, privilegiando personalità del territorio con un trascorso politico coerente e capacità politiche all’altezza delle sfide (includendo ovviamente le candidate, in questo blog si usa il “maschile plurale come genere non marcato”, facendo prevalere l’eleganza della forma sul sovraeccitato Spirito del Tempo…).

Le tre condizioni sopra riportate escludono tutti i partiti in campo, nessuno escluso.

Vi è poi il voto per i collegi uninominali. Anche in questo caso il mio ritorno alle urne è subordinato a condizioni precise:

1) non voterò candidati espressione del M5S o in alleanza con esso;
2) non voterò candidati che non siano realmente in grado di rappresentare la nostra comunità, perché questo è lo spirito dei collegi uninominali. Quindi, per capirci, giochini alla Tommaso Cerno (candidato in Friuli, eletto a Milano, residente a Roma, transfuga in altri partiti alla prima difficoltà) lasciamoli da parte!

Concludendo: escluso un voto a liste di partito, qualche pallido spiraglio a un voto di coalizione. “Eh, ma se non voti viene la Meloni!”.

Pazienza. Come viene se ne va e pure in fretta. Tanto sono tutti leader di cartone, alla prima pioggia si squagliano.

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Piccolo elogio del tovagliato a quadri

In questi anni ’20 nei quali – per citare Amleto – “una sventura pesta le calcagna dell’altra, così fitte vengono”, ogni tanto ci si accende per questioni minori, che però ci danno tregua dalle pandemie, dalle crisi economiche, dalle guerre combattute e da quelle di religione…

Negli ultimi giorni ho visto animarsi i commenti social e le pagine web dei giornali e – soprattutto – dei rotocalchi scandalistici (come Repubblica) su quattro temi particolarmente frivoli: Chiara Ferragni a Sanremo (dove immagino terrà un intenso monologo sulla bellezza interiore, il valore delle piccole cose e l’importanza di dedicare del tempo a sé stessi, isolandosi dalle follie del Mondo); tal Cathy La Torre, che si è rimpicciolita le tette e ha cercato di far passare questa comune operazione di chirurgia estetica come un atto di coraggio civile alla Rosa Parks; il M5S che si è scisso e – infine – la pizza glitterata di Flavio Briatore.

Verso la Ferragni non nutro particolare antipatia, anzi solidarizzo con lei perché le è toccato in sorte un marito scemo con il quale è incastrata per ragioni forse sentimentali, certo commerciali, del M5S e delle tette di Cathy La Torre (o di quanto resta di esse) mi importa ancora meno e quindi mi soffermo su un tema che a tutti piace: la pizza, anche se di Flavio Briatore.

L’antefatto è semplice. Qualche fenomeno è andato a mangiare la pizza in uno dei ristoranti di Flavio Briatore, si è pigliato la saccagnata e ha pubblicato lo scontrino indignato sul web. Succede spesso, la gente che va a bere l’acqua minerale da Carlo Cracco in Galleria e poi si indigna sui social perché costa 6 € e non 0,30 come quella dei distributori automatici alla stazione, è un genere letterario minore (molto minore) prevedibile per il suo mix di vittimismo, moralismo e invidia sociale malcelata.

E quindi io – che amo sedermi dalla parte del torto – in questa vicenda sono tutto dalla parte di Flavio Briatore, persona che reputo insopportabile, classista, ignorante, reazionaria e spietata, però trasparente, perché tutti questi suoi aspetti non sono nascosti dietro ipocrisia e buone maniere, bensì manifesti, pubblici, evidenti, ostentati con compiacimento. E così sono i suoi prezzi: pubblici, visibili nel menù ma – soprattutto – intuibili: vuoi andare a mangiare la Margherita in via Veneto a Roma, a Montecarlo o a Porto Cervo nel locale di uno che usa le banconote da 100 come carta igienica e ci tiene a fartelo sapere? magari decidi di pasteggiare non con la birra Peroni ma con il Sassicaia millesimato? E quindi? di cosa ti indigni? Non stai pagando la mensa dell’asilo di tuo figlio, vai da Briatore per raccontare in giro che sei stato da Briatore e questo è il prezzo, non è lui che è ladro o – come ho letto – “un coglione” (Briatore è tutto, ma coglione proprio no…), sei tu che sei un grullo se ti meravigli, un idiota se ci vai solo per fare la web-piazzata, un vanesio se cerchi di darti un tono e sembrare un VIP(S)…

Quello che mi indigna, anzi – meglio – quello che mi intristisce, non è certo il prezzo della pizza (tra l’altro, la Margherita costa 15 euro, il coperto 2 e l’acqua 4… con 21€, quindi, chiunque può giocare a “tutti Oligarchi per un’ora”) bensì il bisogno di rendere esclusiva, elitaria, un’esperienza per sua definizione democratica e popolare come la pizza, il vero fast-food italiano. L’idea è che “gvarda povevo plebeo, tu cvedi di mangiave la veva pizza, ma quella la mangio io, tu mangi solo un po’ di favina, acqua e mozzavella da poco…” una sorta di “gentrificazione alimentare” non necessaria, irritante e sciocca.

Flavio Briatore prospera sulla vanità e la vacuità dei ricchi, soprattutto i nouveaux riches, il che non è particolarmente originale come strategia: la smania di ostentazione risale ai tempi della Roma trimalciona e satolla, si attenua un po’ durante l’Alto Medioevo, quando lo sfoggio dell’opulenza era condannato severamente dalla Chiesa, ma ritorna in auge con il Rinascimento (anche se i soldi venivano spesi per affrescare palazzi, non solo per sbronzarsi di Dom Perignon al Twiga), tocca vette inaudite nel frivolo ‘700, prima che l’oculatezza liberale e borghese spazzi via tutto in omaggio al “buon senso” Biedermeier, riparte nell’Età dell’Oro americana dominata dai “Robber Barons” per giungere fino a noi, simboleggiata dagli Oligarchi Russi e Cinesi, che comprano palazzi del Rinascimento a Roma o Castelli nella Loira, passeggiando nelle gallerie affrescate con lo sguardo compiaciuto e lo stuzzicadenti in bocca…

Però la pizza non è quella cosa lì. Non è “Sassicaia e Pata Negra”. La pizza è quella della nostra infanzia, quando si andava fuori con i genitori a festeggiare un compleanno o il pagamento dello stipendio… quando c’erano le tovaglie a quadretti bianchi e rossi e si era felici nell’estrema semplicità di quell’atmosfera calda e famigliare, con papà che prendeva la Romana, la mamma la pizza alle Melanzane, mio fratello Gianluca la Viennese e io la Margherita, con più mozzarella e un po’ di origano… Peraltro, in linea di massima, sono gli stessi gusti che noi quattro prendiamo ancora.

Le “vecchie” pizzerie di Udine: le due Moretti, la Cantina Fredda, da Catello… entrando si sentiva il profumo di pane bruciacchiato uscire dal forno a legna, il coperto che non si pagava, i bicchieri appannati di birra gelata di papà e mamma e – suprema raffinatezza – il Crème Caramel, il dolce “da pizzeria” per definizione. Il “Moretti” di piazzale Osoppo era il luogo dell’adolescenza, quando al sabato tra amici si andava al cinema Ariston e poi in pizzeria, ma oggi non c’è più né l’Ariston, ne il Moretti e tantomeno l’adolescenza… E per quanti anni la pizza del sabato sera con Paola è stata a Tricesimo, dalla signora Marese? con quell’impasto bizzarro, la cottura elettrica e tutte le risate, i pettegolezzi e i drammi dei nostri 20 anni?

Per me la pizza è e resta quella cosa lì ed è quello che cerco. Sono sempre un po’ infastidito dal tovagliato elegante, dalle doppie posate e dall’aria sussiegosa che hanno ormai le pizzerie udinesi, quasi che mangiare “popolare” sia qualcosa di cui vergognarsi, da cui distanziarsi. E – paradossalmente – quando paghi il conto, la voce “pizza” incide meno della metà, dato che la somma “coperto+bibita+caffè” supera di gran lunga il costo medio di una Margherita o di una Capricciosa.

Quindi scandalizzarsi per il menù di Flavio Briatore è sciocco o ipocrita. E lui fa bene a vantarsene, perché l’eccesso e la volgarità è quello che la sua clientela cerca e che lui sa offrire meglio di chiunque altro. Critico Briatore solo su un punto: quando fa la piangina sui prezzi… “la nostra pizza è buona!” (e vorrei vedere) “e gli ingredienti sono cari! lo sapete quanto costa la mozzarella di bufala? e il San Daniele? lo paghiamo 35 €/Kg!

No Flavio, questo no! il vittimismo del “tutto aumenta, Signora mia!” anche no. Proprio ieri, nel Despar sotto casa, ho preso un etto di San Daniele: costava 28 €/Kg. Scrivimi in privato Flavio, ti dirò dove puoi risparmiare qualcosa…

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Il corpo degli Zar

Come sta Putin? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, fino al giorno in cui (speriamo presto), passerà a peggior vita, trascinato da Satana nei suoi Inferi. Ma fino ad allora non sogniamoci comunicati stampa, bollettini medici, interviste a cuore aperto perché in Russia è sempre stato così, il corpo dell’Imperatore avvolto dal mistero.

In età sovietica non era diverso. Uno dei miei ricordi d’adolescenza sono i notiziari del mattino, quando “il nostro corrispondente da Mosca Demetrio Volcic” ci informava che da ore radio e televisione avevano interrotto la programmazione e trasmettevano solo musica classica, per preparare il popolo alla scomparsa di qualche Fagiano d’Oro del Politburo e consentire ai superstiti di consumare le ultime vendette, regolare gli ultimi conti, prima di comparire tutti in fila sul Mausoleo di Lenin, con i loro volti di pietra dietro i quali nulla doveva trasparire…

“Da stamane a Mosca la radio e la televisione trasmettono musica classica e canti patriottici. Gli esperti ritengono che potrebbe essere morto Breznev, però alcuni ipotizzano Suslov, che alla parata era apparso pallidino, oppure il maresciallo Ustinov, così affaticato!”

Nel 1985, il vicepresidente Bush, in visita ufficiale a Vienna, decise di prolungare la permanenza in Austria per qualche giorno ancora. Motivo ufficiale: shopping con Barbara, motivo reale, i satelliti spia USA avevano registrato un curioso via vai di Zil scure tra il Cremlino e un ospedale per gerarchi alle porte di Mosca. Forse forse è la volta che Černenko lascia definitivamente questa valle di lacrime e non c’è ragione di ritornare a Washington per ripartire il giorno dopo per Mosca… meglio aspettare gli eventi direttamente in Europa. Fu falso allarme.

E potrei continuare. Chi e come ha assassinato Berija nel 1953? davvero Stalin fu lasciato agonizzare? come avvenne la defenestrazione di Chruščëv?

Questo gusto del mistero proviene dritto dritto dalla corte dei Romanov dove – contrariamente alle usanze occidentali – il sovrano non sempre nasceva e moriva in pubblico (condizioni necessarie per la legittimità), ma il tutto avveniva in un clima sanguinolento di intrighi e misteri. Quanti zar Ivan VI, quanti zar Pietro III, quante granduchesse Anastasia hanno fatto la loro comparsa per poi scomparire nuovamente nel nulla! E chi ha veramente strangolato lo zar Paolo? Ed è vero che il religiosissimo, pio Alessandro stava nella stanza a fianco, ad attendere che il proprio Augusto Genitore venisse soppresso, per poter finalmente diventare “Zar e Autocrate di tutte le Russie”?

Gia, Alessandro, il grande nemico di Napoleone. Che nel 1825 si trasferì con la moglie in una residenza modesta al sud, tra il Don e la Crimea, perché l’aria è salubre e la vita lontano dalla corte più sopportabile… E da lì giunse inaspettata a San Pietroburgo la notizia: lo zar è morto improvvisamente.

La bara era chiusa, era passato del tempo e pare ci fossero odori poco gradevoli. Il funerale venne fatto in fretta e subito iniziarono le voci tra il popolo “lo zar non è morto, si è trasferito in Siberia, fa il monaco, si chiama Fëdor, quello si che è un Santo!”

Il Santo che somigliava così tanto allo zar morì nel 1864, quasi 40 anni dopo Alessandro. Ma le voci non si spensero, l’ipotesi che nel 1825 non fosse stato sepolto il vero zar continuarono a lungo. Ci volle il decisionismo sacrilego dei bolscevichi per risolvere la questione: “riesumare la salma e studiare il corpo!”.

Era il 1921. La bara fu aperta. Era vuota.

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L’Uomo di Fede

Io non ho fede.

La fede è un dono e a me tale dono non è stato concesso e questo mi è fonte di rammarico, perché ritengo che una fede vera, vissuta e testimoniata sia uno straordinario navigatore gps, fondamentale per non perdersi nelle vie tortuose dell’esistenza, utilissimo per ottenere conforto per le scelte fatte e suggerimento per quelle ancora da fare.

Ieri a Udine ci è giunta la dolorosa notizia della morte di uno straordinario uomo di fede, don Pierluigi Di Piazza. Se navigo tra i profili Facebook trovo un sacco di gente che rivela l’intensità e l’esclusività di un rapporto costante e profondo con il sacerdote scomparso, al punto che mi chiedo come potesse – in una giornata di 24 ore – trovare il tempo per le moltissime e multiformi attività che hanno dato un senso così straordinario al suo magistero e contemporaneamente coltivare una tale quantità di relazioni variopinte e parimenti profonde. Mistero della fede.

Io non ero un amico di don Di Piazza. Ci ho parlato forse 4-5 volte, di solito in occasione di iniziative pubbliche durante le quali eravamo entrambi ospiti e la nostra conversazione ha sempre avuto le caratteristiche della cortesia generica tipica dei contesti sociali, pertanto la mia eccellente opinione sull’uomo e sul sacerdote si basa su quanto so del suo lavoro, il lavoro di tutta una vita, a sostegno degli umili, degli ultimi, del diritto delle genti, della solidarietà umana. Insomma un Vangelo vissuto e testimoniato giorno per giorno, con coerenza, coraggio e ostinazione, dando carne e sangue ai valori più profondi della religione cristiana: la solidarietà universale, la vicinanza alla sofferenza, l’apertura verso gli altri.

Ho letto un bel po’ di ricordi su Facebook, quasi tutti di amici o amiche di sinistra e una cosa mi sconcerta: il frequente tentativo di separare l’uomo dal sacerdote, quasi come se tutte le cose buone fatte da don Di Piazza nell’arco della sua vita non siano state compiute grazie alla sua fede cristiana, ma malgrado la sua fede cristiana. E quindi è tutto un distinguo, tutto un “non importa fosse un sacerdote, era soprattutto un grande uomo”…

In controluce il tentativo di declassare la fede a mero accidente privato, rimuovere il valore della testimonianza cristiana e ridurre la Chiesa Cattolica a un cesto di casi di corruzione, pedofilia e posizioni retrive su un qualche diritto civile. Perché nella sinistra de-ideologizzata credere in una struttura complessa e comportarsi di conseguenza – sia essa una ideologia o una religione – è considerato implicitamente negativo. Bisogna avere valori fluidi e liquidi per navigare nel generico progressismo globalizzato e multiculturale, che nega alla radice la differenza.

Però non solo è un errore, in quanto si trascura che la Chiesa è una realtà complessa, nella quale convivevano negli stessi anni la propensione alla malversazione di mons. Marcinkus e la propensione al martirio di mons. Romero ma è anche una profonda mancanza di riguardo verso don Di Piazza.

Cari compagni e compagne, don Di Piazza era soprattutto un uomo di fede. Profonda e vissuta interamente, al punto da consacrare ad essa – e al suo Dio che io non prego – la propria intera esistenza, con la scelta estrema e irrevocabile del sacerdozio. Mettere in secondo piano il suo essere prete vuol dire mancare di rispetto alla sua memoria, alla sua opera e alla sua stessa vita.

Addio, reverendissimo don Di Piazza, mancherà alla sua gente, alla sua terra, ai suoi fedeli. E mancherà anche a me, uomo senza fede, uomo che non ha avuto il privilegio di conoscerla troppo bene, ma che da anni osservava con ammirazione e affetto tutto il bene che ha fatto, giorno dopo giorno.

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Giustiniano e la percezione del dolore

Giorni fa ho avuto il privilegio di uno scambio epistolare con una delle più illustri studiose europee di Storia Bizantina. Il tema era il retaggio ideale della “Seconda Roma” nella Russia contemporanea in generale e nelle strategie di Vladimir Putin in particolare.

Superficialmente, ho sottolineato che – dovendo scegliere un Basileus – avrei accostato la figura di Putin a quella di Michele VIII Paleologo, l’Imperatore che riconquistò Costantinopoli dopo l’orrore dell’occupazione crociata, cercò di riportare l’Impero alla grandezza dell’epoca Comnena e per farlo alternò atrocità, raffinatezze diplomatiche, sotterfugi e spietate spedizioni militari, senza riuscirvi del tutto e lasciando, alla propria morte, uno Stato esausto e svuotato militarmente ed economicamente.

La risposta della mia interlocutrice mi ha spiazzato: “venendo al parallelo Putin-Michele VIII Paleologo, sul piano strettamente politico potrebbe avere ragione. Ma va detto che un regime di terrore interno come quello istituito da Putin non trova uguali nella storia tardobizantina. Il suo imperialismo reazionario, il suo crudele bellicismo e il suo regime interno mi fanno pensare se mai forse a Giustiniano, Basileus tanto acclamato dalla storiografia occidentale quanto detestato dai suoi sudditi (si leggano gli Anekdota di Procopio) e poi da tutta la tradizione bizantina.”

Giustiniano? Il Grande Giustiniano posto sullo stesso piano di Vladimir Putin, che – per quanto mi riguarda – è infinitamente peggio di un assassino da vicolo? No il “mio” Giustiniano non può essere affiancato a tale criminale… Io insegno Diritto, per me Giustiniano è l’uomo del Codice, il meraviglioso Corpus Iuris Civilis, la sistematica raccolta, classificazione e razionalizzazione del Diritto Romano.

E poi, Giustiniano è l’Imperatore dei mosaici di San Vitale a Ravenna, il costruttore dell’Hagia Sophia a Costantinopoli, il riconquistatore dell’Italia, dell’Africa e di parte della Spagna, riunite all’Impero nell’ambito del sogno della Renovatio Imperii… No, Giustiniano non c’entra nulla con Putin!

E invece… Invece ho letto. Non avendo gli strumenti culturali per accedere alle fonti primarie con la stessa ammirevole dimestichezza della mia interlocutrice, mi sono basato sui saggi di Giorgio Ravegnani (Carocci Editore), su altri testi di riferimento generale e – soprattutto – sulla monumentale biografia scritta da Georges Tate, (Salerno Editore), della quale ho letto le parti relative alla politica religiosa e alla politica interna.

Effettivamente da quanto letto emerge il quadro di un regime politico soffocante, intollerante e dai tratti fanatici. La costante repressione del dissenso politico, la spietatezza contro ogni forma di pluralismo o dibattito religioso, la terrificante violenza della ventennale guerra contro i Goti per riconquistare l’Italia, che lasciò la Penisola in polvere. Tutto questo mi ha instillato il dono del dubbio: ho sempre considerato un’opera mirabile la riunione dell’Italia all’Impero ma le sofferenze e gli orrori di quella guerra mi sembrano oggi fin troppo simili a quelli dell’Ucraina e il paragone con Putin assolutamente agghiacciante ma purtroppo efficace.

Eppure cosa rende Giustiniano così grande ai nostri occhi? Forse il fatto che le migliaia, centinaia di migliaia di vittime della sua visione grande e fanatica siano tutte morte e a noi resta solo d’ammirare il sogno, così come ammiriamo le piramidi e ringraziamo Cheope o Micerino di averle volute, senza curarci delle sofferenze di chi le ha costruite.

E mi sconvolge pensare che forse – tra qualche secolo – se ancora questo povero Mondo che “sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio” sarà stato capace di sopravvivere alla stupidità umana, magari gli storici parleranno di Vladimir il Grande, che cercò la propria Renovatio Imperii e nessuno si ricorderà delle lacrime dei martiri di Mariupol o di qualche altro borgo sventurato dal nome impronunciabile.

La Storia è un interminabile catalogo di errori e di orrori, l’uno uguale all’altro, in un’eterna coazione a ripetere che serve solo a dimostrare la nostra patologica incapacità ad apprendere dall’esperienza e il nostro criterio di giudizio del passato è inevitabilmente sempre viziato dalle sensazioni e dai pregiudizi del presente. Mentre le sofferenze dei singoli sono dimenticate, perché i singoli non hanno nome.

P.S. Questo post è rispettosamente dedicato al popolo ucraino, la cui indicibile sofferenza davanti a una aggressione spietata e senza limiti turba le coscienze del presente e spero non verrà scordata neppure nel futuro.

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…mentre la Regina deve essere unica e inimitabile

Potrei portare molte ragioni a sostegno della mia simpatia e della mia stima per S.M. la Regina Elisabetta II, che oggi raggiunge i 70 anni di regno. Più di Francesco Giuseppe, meno di Luigi XIV (che – però – divenne Re a 4 anni).

Ad esempio, potrei scrivere della simpatia umana per una donna che svolge un lavoro che non ha chiesto da quando – nel dicembre 1936 – divenne improvvisamente erede al trono e quindi la sua vita privata cessò di esistere. O del carico di rogne e problemi che la sua scombinata famiglia le ha causato, a partire dallo zio Edoardo che rinunciò al trono, fino all’ex nipotino prediletto, il tonto Harry, incatenato dall’incontenibile smania di visibilità e ambizione della sua attricetta yankee, stendendo un velo sulle frequentazioni di certi figli…

Queen's Garden Party Photo Shows Rare Perspective | PEOPLE.com

Potrei anche fare un ragionamento colto sulle ragioni istituzionali e politiche che rendono utile il mantenimento dell’istituto monarchico, laddove ancora esiste o – magari – sottolineare l’invidia per il popolo britannico, che ha per capo di stato una persona che in 70 anni di regno non ha mai fatto una gaffe o detto una parola sbagliata, condizione inconcepibile per chi vive nella scomposta Repubblica dell’Eterno Chiacchiericcio.

Infine, potrei sottolineare che la Regina detesta chi vuole distruggere e crede in chi vuole costruire. Non ha mai parlato, ma sappiamo che è contraria al secessionismo scozzese così come è stata contraria alla Brexit, perché non ama le rotture e sa che “tutti siano consapevoli degli enormi benefici che si realizzano quando la gente si unisce per un obiettivo comune” per citare una sua frase, come sempre brevissima in cui ogni parola è stata pesata con cura.

Ma oggi – che si celebrano i 70 anni di ascesa al trono – voglio dire sopratutto che di Elisabetta II apprezzo la dignità, la discrezione, la rettitudine costituzionale, la riservatezza, l’assoluta dedizione al suo Alto Ufficio, il suo indistruttibile senso del dovere e del decoro, che sono le doti che più ammiro in uno statista e che ormai non si trovano quasi più e nessuno lo sa meglio di lei, che iniziò il proprio regno con Winston Churchill e oggi deve convivere con il goffo e caotico populismo di Boris Johnson.

La sua intera vita conferma si conferma la lezione che Maria Teresa d’Austria impartì alla figlia Maria Antonietta, capricciosa regina di Francia: “mi dicono che preferisci essere regina della moda, invece che regina del tuo regno. Ma sbagli, la moda è per sua natura mutevole, mentre la monarchia deve essere salda. E poi la moda è livellatrice, mentre la regina deve essere unica e inimitabile“.

E così, mentre attorno a lei tutto è cambiato e il n. 10 di Downing Street ha visto alternarsi nel frattempo 14 inquilini, alcuni di questi usciti a testa bassa e in mezzo ai fischi, la Regina, con i suoi cappelli e le sue borsette, continua imperterrita la propria strada…

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L’Alternanza Scuola-Lavoro, come la vedo

Da professore delle scuole superiori non ho problemi ad affermarlo chiaramente: detesto l’Alternanza Scuola-Lavoro (oggi PCTO), anche se ne capisco in astratto il valore, ma l’astratto purtroppo non è il concreto, anzi temo stiano su pianeti diversi.

L’alternanza può essere utile, in taluni contesti pure inevitabile (come nei percorsi degli istituti professionali, ad esempio), ma quello che la rende sbagliata è il fatto che al centro della narrazione non è posto lo studente con le sue esigenze di crescita umana, culturale e professionale, ma si intravvede in filigrana un disegno ideologico e reazionario: l’indottrinamento aziendalista per abituare i giovani a lavorare gratis. L’opposto del valore di dignità che al Lavoro è attribuito dall’art. 36 della Costituzione.

A tale proposito, ricordo alcuni anni fa un incontro con un imprenditore invitato nella scuola dove allora insegnavo (un IPSIA). Un uomo – teoricamente – progressista, per molti anni sindaco del PD di un comune ad alta vocazione industriale della provincia di Udine. In aula magna fece un concione interminabile sulle virtù del mondo dell’impresa in generale e della sua in particolare. Giunti alle domande, un ragazzo alzò la mano e chiese “qual è lo stipendio per un neoassunto?”

La trama di Oliver Twist: cinque cose da ricordare - Cinque cose belle

Apriti cielo! L’imprenditore progressista prese il volo con una insopportabile paternale sull’impresa “che investe sui suoi giovani prendendosi un rischio”, sul fatto che “un giovane deve pensare alle esperienze e non allo stipendio” e tutto il resto della pelosa retorica reazionaria che si accompagna, quella dell’imprenditore “che crea lavoro” (e che io in classe smentisco, dicendo che il lavoro è un fattore della produzione e come tale viene acquistato solo se serve, cercando di pagarlo il meno possibile e sfruttarlo il più possibile, come si fa sempre con un bene che si acquista).

E poi l’ASL è classista. Se fai un liceo, allora ci sono percorsi di alto livello, si propongono cose interessanti, i ragazzi ne sono contenti, ma se invece frequenti una scuola “bassa”, l’ASL serve ad insegnarti a diventare carne da produzione. Ognuno al suo posto, come nel Medioevo, quando almeno non ti facevano trangugiare una sbrodolosa retorica sul merito che prevale sulla nascita.

L’ASL può essere una opportunità, perché la scuola non è un’isola sperduta nel Pacifico, ma deve dialogare con la società e l’impresa di quella società è parte. Ma non esiste solo l’impresa… esiste il mondo del no-profit, delle associazioni, dello sport, della cultura, tutte realtà che meriterebbero di essere prese in considerazione non solo se per caso qualche professore illuminato crea un percorso originale e creativo. E – soprattutto – lo strumento dell’ASL dovrebbe essere pensato per ampliare lo spettro visivo degli studenti, non per restringerlo. Se ripensata potrebbe essere l’occasione di far intravvedere ai giovani qualcosa di nuovo, qualcosa di impensato.

Ad esempio, magari 1 ogni 1000 di quei ragazzi dei professionali spediti nelle fabbriche, in percorsi privi di ambizione formativa, non pagati e svilenti, magari potrebbe essere curioso di altro… Magari questo 1 su 1000 se solo avesse potuto scegliere tra l’ASL e un assaggio di quella cultura a lui preclusa – che ne so il Latino o la Storia dell’Arte – forse avrebbe scelto l’assaggio. E magari il piatto gli sarebbe pure piaciuto. E avrebbe potuto continuare a cibarsene. E chissà, quel ragazzo di famiglia semplice del Gemonese o della Bassa Friulana (le zone dove si trovano gli Ipsia in cui ho insegnato) sarebbe forse riuscito a fuggire alla sorte che la nascita, l’inerzia e il Legislatore italiano avevano già deciso per lui.

In fondo, se la scuola non serve anche a capire sé stessi, a che altro può servire?

PS. Questo post è rispettosamente dedicato a Lorenzo, morto a 18 anni in un incidente sul lavoro mentre era impegnato in una attività di Alternanza Scuola-Lavoro.

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Una Storia così lontana, così vicina…

Sembra cronaca di questi giorni. Nel 1808 Napoleone – con la scusa di voler estendere alla penisola Iberica le moderne ed avanzate istituzioni francesi e porre fine all’arcaico regime feudale e confessionale dei Borboni – decise di invadere la Spagna.

All’inizio va quasi tutto bene, sul trono viene istallato come “re fantoccio” uno dei fratelli dell’Imperatore, i vecchi ordinamenti assolutistici vengono smantellati, il potere della Chiesa limitato, introdotto il Code Civil, orgoglio legislativo di Napoleone… Presto però il riformismo importato inizia a non piacere, anche perché la presenza francese si rivela onnipresente e arrogante… il governo di re Giuseppe controlla alcune importanti città (Madrid, Saragozza, Burgos…) e questo crea negli occupanti la falsa illusione di controllare l’intera Spagna.

Ma non è così: mentre l’élite urbana liberale collabora con il governo filofrancese (gli “afrancesados”), nelle campagne i contadini – sobillati dai nobili e dai preti – si ribellano alle “armate dell’Anticristo” e danno il via a una guerriglia sanguinosissima e inarrestabile… Napoleone in persona deve scendere in campo, ottiene grandi successi nelle poche battaglie campali, ma lo stillicidio di agguati contro le linee di comunicazione francesi, i collaborazionisti e le truppe isolate continua senza sosta.

Alle imboscate dei guerriglieri seguono le repressioni. I francesi impauriti e incrudeliti bruciano villaggi, fucilano civili, impiccano o garrotano preti, demoliscono conventi, senza riuscire a fermare la guerriglia legittimista (armata e finanziata dall’Inghilterra). La crescente violenza della repressione fa perdere al governo collaborazionista anche il poco consenso di cui godeva e le stesse classi intellettuali illuministe che lo avevano inizialmente appoggiato ne prendono le distanze, mentre nessuno attribuisce più credito alcuno agli editti liberali di re Giuseppe, sempre più solo e screditato.

Finisce come doveva finire. Con un milione tra morti e feriti, la sconfitta e il ritiro dei francesi, la fuga di Giuseppe Bonaparte e della sua corte di ingenui, il ritorno sul trono dei Borboni supportati dalle baionette inglesi e dalle masse contadine reazionarie e clericali. Il re Ferdinando VII di Borbone promette di mantenere la Costituzione, conservare le riforme liberali e lo stato di diritto. Però, appena pochi mesi dopo – il 5 maggio 1814, a 24 ore dallo sbarco di Napoleone sull’Elba – Ferdinando si rimangiò le promesse di tolleranza, iniziò un’opera di restaurazione del vecchio regime assolutista, restituì al clero il vecchio potere e per gli afrancesados la scelta era tra forca o esilio…

In sintesi: un grande stato arretrato, l’invasione da parte di un impero prepotente che vuole esportare i propri valori dominanti, l’illusione che il controllo di un pugno di città possa significare il controllo dell’intero territorio, il fragile sostegno di classi dirigenti illuminate ma autoreferenziali, la guerriglia reazionaria e clericale nelle campagne, il ritorno al potere di un passato regime retrivo e ancor più incattivito… Ricorda nulla?

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